Spesso, i dati delle pubblicazioni più ragguardevoli in merito a particolari problematiche vengono analizzati con sofisticati strumenti statistici ed algoritmi al fine di stabilire se si è raggiunto un grado di evidenza (e, se sì, di quale entità) sufficiente per poter affermare che su un determinato argomento si è pervenuti ad un consenso basato sull’evidenza dei dati scientifici pubblicati. È la cosiddetta “Medicina-basata-sull’evidenza”.
Grazie alla implementazione delle evidenze disponibili le varie Società Scientifiche elaborano le proprie linee-guida che aiutano i professionisti della salute ad erogare prestazioni attendibili e, per quanto possibile, standardizzate. Un simile modo di operare ha segnato (per fortuna) la fine del “si è sempre fatto così: perché cambiare?” e del lustro del parere isolato del luminare auto-referenziale.
Per altri versi, le linee-guida hanno condotto alla elaborazione di rigidi protocolli di comportamento che costringono il professionista a muoversi entro binari predeterminati, pena l’incriminazione in caso di contenzioso medico-legale. Eppure, la Medicina è caratterizzata da una infinita declinazione di situazioni e possibilità: tutte le volte in cui il codificato non copre tutta la realtà sarebbe necessario introdurre una sana e ragionevole “creatività”, una diligenza assimilabile a quella del “buon padre di famiglia” di antica memoria. Sebbene teoricamente riconosciute, esse sono di fatto spesso scoraggiate.
Peraltro, non su tutto è stato finora possibile procedere con i criteri della “Medicina-basata-sull’evidenza”: alcune popolazioni (si pensi agli anziani con molte patologie attive, che assumono molti farmaci) sono quasi sempre ignorate. Prescindendo da una comprensibile mancanza di interesse delle multinazionali del farmaco o dei presidi diagnostici in senso lato, resta la difficoltà enorme di scorporare ed analizzare una singola problematica nei pazienti complessi (quali sono appunto gli anziani). Paradossalmente quindi, proprio laddove sarebbe veramente utile – gli anziani costituiscono la fetta più grande della popolazione dei malati e quella che assorbe la maggior parte delle risorse della Sanità – la “Medicina-basata-sull’evidenza” è carente o addirittura latitante.
Non si possono poi chiudere gli occhi su alcuni aspetti inquietanti della Medicina occidentale. Essa è in grado di muovere una enorme quantità di denaro e di assicurare profitti eccezionali. Ciò che può apparire un pronunciamento asettico su una dieta (ad esempio, approvazione o squalifica della assunzione di carne rossa) può spostare milioni di euro/dollari legati all’allevamento di animali da macello.
In un’epoca in cui il potere delle grandi lobby economiche nonché la capacità di infiltrazione e di corruttela delle associazioni criminali diventano ogni giorno più forti anche se smascherate dalle forze di contrasto, non ci si può illudere che la Medicina venga ignorata dagli appetiti famelici di chi cerca solo denaro e non il bene degli ammalati.
È obbligatorio per gli autori di articoli scientifici dichiarare se abbiano percepito denaro da aziende del settore per completare il loro studio. L’autore potrebbe aver intrapreso un certo lavoro scientifico, e raggiunto alcune conclusioni, perché al soldo della azienda committente. Tuttavia, non sfugge a nessuno che quello appena descritto è solo uno dei modi di finanziare uno studio scientifico: ad esempio, denaro può essere messo facilmente e discretamente a disposizione per finanziare ricerche con risvolti eticamente-sensibili che potranno assicurare – se condotte in un certo modo – enormi ritorni economici.
Inoltre, in un’epoca di false notizie, i professionisti della salute debbono esercitare un controllo severo sulle fonti cercando di attingere a quelle ritenute più attendibili, oltre che facili da memorizzare e/o da consultare.
La mole di dati prodotti dalla ricerca è tale che i Medici e gli Infermieri necessitano di supporti che consentano loro di essere aggiornati senza rinunciare del tutto ad una qualità di vita umana (riposo fisico e sonno, recupero psichico, pasti consumati senza fretta, affettività, svago) e al necessario tempo di contatto col malato. Troppe volte si pone il dilemma: studiare per conoscere bene senza poi aver tempo di fare vs. fare senza forse conoscere abbastanza. Un simile contesto è lo sfondo di tante controversie medico-legali: se il professionista della salute si attardasse a controllare pedissequamente l’aderenza del proprio operato alle più recenti pubblicazioni (nella notte può sempre essere emersa una evidenza che modifica il comportamento clinico da seguire anche nei casi di decisioni sperimentate da tempo con successo) il paziente … forse morirebbe nell’attesa.
Quanto sopra sommariamente accennato non conserva tutto il suo valore nella attuale temperie.
La diffusione mondiale del Sars-CoV-2 che produce la COVID-19 ha causato un affollamento repentino presso i Pronto Soccorso e i reparti di degenza molti dei quali hanno dovuto essere convertiti per accogliere i pazienti gravemente sintomatici. I reparti di terapia intensiva hanno dovuto essere ampliati per sottrarre a morte certa quante più persone con malattia critica possibile. Alcuni pazienti non hanno trovato posto nelle sale di assistenza intensivistica e hanno dovuto essere gestiti nei reparti ordinari da personale senza specifica competenza rianimatoria. I medici di terapia intensiva, sobbarcandosi un notevole carico di lavoro aggiuntivo, hanno prestato consulenza sull’impiego dei ventilatori che medici di specialità diverse non sapevano usare. I turni di lavoro degli operatori sono stati dilatati all’inverosimile, senza i necessari tempi di riposo e recupero. Moltissimi di essi si sono contagiati e, nei casi più fortunati, hanno vissuto il loro isolamento fiduciario mettendo a repentaglio la salute dei loro parenti in ambienti non sempre adeguati alle necessarie misure di sicurezza. Appena ripresisi, sono stati richiamati in corsia a volte senza certezza della avvenuta negativizzazione della PCR per COVID-19 (tampone). Non pochi sono morti. Fra di essi un mio carissimo amico di 73 anni, pensionato, che non si è tirato indietro difronte al pericolo e ha rindossato il camice per supplire i Medici di Famiglia ammalati o in quarantena del suo territorio.
Medici specializzandi e giovani medici appena laureati sono mandati “al fronte” nei reparti COVID-19 dedicati. Hanno dalla loro parte giovinezza, entusiasmo e favore delle statistiche circa la prognosi in caso di contagio: il loro rischio non è comunque zero.
Arrivano Medici dall’estero: bisognerà imparare a capirsi in inglese; bisognerà allinearli al nostro sistema sanitario, ai nomi commerciali dei nostri farmaci, agli schemi terapeutici degli ospedali, delle strutture o dei contesti in cui presteranno servizio. Tutti avranno bisogno di supervisione e di formazione che costano ulteriori tempo ed energia ai colleghi esperti.
In questa situazione, miracolosamente, medici cinesi e poi via via italiani spagnoli francesi inglesi statunitensi etc. stanno trovando il tempo di condividere la loro esperienza di lavoro nelle corsie o dove è stato necessario. Vuol dire che, terminato il turno, invece che riposare si sono messi a riflettere e a scrivere.
Hanno curato finora senza avere a disposizione linee-guida e tantomeno protocolli perché la COVID-19 somiglia ma non è la stessa cosa della SARS e della sindrome respiratoria medio-orientale (MERS). Sono andati necessariamente per tentativi, per somiglianze, a “fiuto clinico”. Come una volta.
Le riviste scientifiche, anche le più autorevoli, hanno allentato un poco la sorveglianza sulla pubblicazione degli articoli per favorire la circolazione delle varie esperienze. Sono comparsi allora contributi che in altri tempi sarebbero stati censurati come aneddotici: “15-20 pazienti trattati col farmaco X”, “40 persone trattate con lo schema terapeutico Y”.
Le prime linee-guida sono arrivate tardi: al momento in cui scrivo ne sono disponibili solo due, per pazienti molto critici. L’ultima è disponibile on line dal 26.03 u.s. e mette insieme la voce della Società Europea di Medicina Intensivistica (ESCIM) e quella della Società di Medicina Intensivistica (SCCM). Fino a pochi giorni fa esistevano solo delle raccomandazioni, dei vademecum di comportamento compilati valutando ciò che era stato pubblicato integrato con l’esperienza delle lotte precedenti ad altri coronavirus.
Per altri versi, in un clima di “perdita di evidenza” molti si sono sentiti autorizzati ad esprimere i loro (prematuramente) granitici convincimenti e/o le loro critiche all’operato dei sanitari o alle scelte del governo in carica. Ne avevano certamente facoltà ma in molti casi sembravano prevalere pregiudizi politici ed invidie personali nel contesto di una generica caratterialità insofferente all’autorità e all’obbedienza. In molti casi è mancato un confronto umile e rispettoso del parere altrui: questo non ha aiutato a raggiungere e mantenere la coesione sociale necessaria per rispettare l’obbligo di “restare a casa”.
Si saranno commessi degli errori medici? Come escluderlo con sicurezza, se non altro viste le condizioni in cui i professionisti hanno finora lavorato?
Potevano essere evitati? Non ho alcuna risposta certa da dare.
Certo è, invece, che non sono tardati (per fortuna, da parte di pochissimi) “atteggiamenti che, nello squallido tentativo di recuperare clientela e cercare visibilità attraverso i social media, approfittano del particolare e drammatico momento emergenziale” e generano condotte che i Presidenti dell’Unione Lombarda degli Ordini Forensi hanno ufficialmente stigmatizzato in data 29.03.2020.
Mi chiedo se sia opportuno rendere effimeri o addirittura cinicamente beffardi i ringraziamenti pubblici e gli applausi sincronizzati dai balconi a favore degli operatori sanitari e far riaffiorare i fantasmi di solo pochi mesi fa.
Alludo a medici ed infermieri (sono gli stessi di oggi!) che fino al gennaio 2020 venivano regolarmente insultati ed aggrediti nei Pronto Soccorso e nei reparti di degenza o durante il servizio notturno di continuità assistenziale; alludo alle minacce di denuncia se certi desideri arrogantemente pretesi non venivano esauditi; alludo alla squalifica e alla irrisione dei medici passati – nella percezione collettiva – da garanti della salute a cui affidarsi a potenziali assassini da cui guardarsi; alludo alle cartelle cliniche compilate più per gli occhi di un futuro giudice che per passare le consegne al collega del turno successivo; alludo alle pratiche della cosiddetta “medicina-difensiva” in base alla quale le scelte diagnostico-terapeutiche sono effettuate prioritariamente in base al principio di cautela del professionista e non a quello del reale interesse del paziente.
Forse questo è il momento opportuno per riflettere su come comporre il diritto del paziente ad essere curato (diritto alle cure, non alla guarigione!) con quanto è ragionevole richiedere al medico e all’infermiere. Forse è la volta buona per svellere l’assioma imperante che recita “se il paziente è morto… sarà pur colpa di qualcuno!”.
A primo acchito, mi verrebbe da dire che sarebbe necessario – e basterebbe – un gruppo di lavoro di esperti qualificati per pervenire ad un nuovo indirizzo legislativo socialmente accettato.
Ma, riflettendoci su, la strada mi appare molto più ardua.
La Medicina intercetta il corpo, la salute, la qualità di vita, la morte. E anche altro.
Su questi temi c’è una profonda spaccatura nel sentire comune. Uno schieramento forse non maggioritario ma sicuramente prevalente è attivamente schierato contro valori e antropologie che erano “scontate” fino a qualche decennio fa. La pandemia attuale sembra aver fatto riaffiorare qualcosa del vecchio patrimonio, purificato.
Sono due mondi che si parlano poco e male. Il loro dialogo difficile rende difficile pervenire ad una composizione sul non molto di condiviso e di condivisibile.
Ma adesso, come non mai, siamo chiamati a vivere di speranza.
Dr. Roberto Leonardi
Medico ospedaliero in pensione
Brescia
leonardi.roberto.it@gmail.com