COVID-19: il bene VITA

In connessione con due interventi relativi alle conseguenze, non scontate, dell’emergenza da COVID-19 (qui e qui), il dott. Leonardi riflette sullo slancio verso medici e infermieri, ora affettuosamente promossi a eroi anche da coloro che fino a qualche tempo fa usavano lo schiaffo o la devastazione di suppellettili ospedaliere per non aver visto salvato l’insalvabile.

Sono, d’altro canto, i tratti ondivaghi dell’opinione (doxa) che, ora qua ora là, si poggia, appagandosi nel digitalizzato “like” spesso spedito al network più per tic compulsivo che per meditata riflessione.

Ma si può (deve) parlare d’eroismo? Certo, in linea teorica ognuno può (con sempre meno limiti) parlare di ciò che vuole, anche lo scemo del villaggio, una volta relegato provvidamente al bar di piazza e oggi scatenato dal tavolino grazie all’interconnessione.

A voler rifletterci: quali sono i presupposti logici di una tale elevazione (eroi)? E’ corretto parlare d’eroismo nel perimetro del dovere, imposto dallo Stato o dalle scelte personali? E cosa comporta?

E poi ancora: il bene della vita è bene in sé, o lo è anche per la relazione che genera sulle altre vite (un sé, per così dire, riflesso)? E quest’ultima, la relazione, è pure un valore in sé? Il giurisperito già sa del danno parentale, che è una esplicitazione di tale connessione interrotta, anch’essa valore che la nostra comunità postula insopprimibile.

Il testo del dott. Leonardi mi ha destato un tepore che provavo all’università, ovvero la sensazione gradevolissima (per chi ha avuto un po’ di difficoltà all’obbedienza puntuale) che il diritto fosse, più che un libretto di istruzioni del vivere collettivo, il precipitato storico di una intera umanità. Ecco perché gli interventi, pur parziali, sui codici, vieppiù se sollecitati da esigenze personali o dall’urgenza dell’accidente, possono scatenare la catastrofe, come in quel metafisico racconto di Buzzati (Il crollo della Baliverna).

Non credo che sia necessario intervenire sulla normativa correlata alla responsabilità dei medici, riducendola (come è stato sollecitato) per quanto accaduto al tempo della pandemia, perché il codice e leggi collegate hanno già tutte le valvole di sicurezza sufficienti a rintuzzare inopportuni assalti alla diligenza.

Se ne potrà parlare: ma per ora, il testo che pubblichiamo, pare toccare più il cuore che il codice. E non è poca cosa questa.

25.4.2020 – avv. Massimo Caria

Il bene VITA nel contesto del dovere, del coraggio e dell’eroismo (di: dott. Roberto Leonardi – 18.4.2020)

Il soldato di carriera.

Molti si stupirebbero se un soldato di carriera, sopravvenuta una guerra, si sottraesse alla battaglia. A poco varrebbero eventuali sue giustificazioni: “Ho sempre subito il fascino della divisa militare però la guerra vera è un’altra cosa. Adesso ho terrore. Penso ai miei cari …”. Quasi tutti (Don Abbondio sarebbe molto comprensivo) lo considererebbero un disertore. Il soldato ha optato per un mestiere pericoloso ed è chiamato ad onorare la sua scelta non solo nei tranquilli tempi di pace. Quand’anche si trovasse, assieme ad altri suoi commilitoni, circondato da forze assolutamente preponderanti cosicché combattere non avrebbe altro significato che dare al nemico una testimonianza di valentia bellica, la scelta di deporre le armi spetterebbe al suo superiore e, forse, non sarebbe nemmeno vincolante.

Ogni mestiere o professione o prestazione d’opera in senso lato che ognuno si trova a svolgere, per scelta o per circostanze di vita, devono essere praticati con diligenza, rettitudine, impegno. Con sacrificio, se necessario (dove sacrificio viene da sacrum facere: fare qualcosa di sacro). È il proprio dovere. È quanto è richiesto di fare.

Medici e infermieri.

Questo vale anche per i Medici e gli Infermieri. È certamente meno gravoso occuparsi di pazienti con poche patologie, facili da curare; di persone di buon carattere, collaboranti, riconoscenti; di malattie che non comportino rischi per la salute per il professionista. Tuttavia, occorre assistere tutti: anche le persone “difficili”, anche le persone contagiose. Un Medico o un Infermiere che violassero questo codice di comportamento commetterebbero un reato e rischierebbero la radiazione dal proprio Ordine.

Grazie al comportamento dei tanti che hanno fatto la loro parte nella attuale drammatica temperie, la parola “dovere” sembra aver riacquistato dignità. Siamo vissuti per troppi anni nell’imperio dei diritti, anche i più estremi, a volte pretesi con arroganza o con l’infantile atteggiamento del capriccio. In nome della non-discriminazione verso i richiedenti si è finito per discriminare chiunque avesse parere opposto. Il dovere è stato relegato nell’implicito: qualche medaglia e qualche corona d’alloro alle vittime di mafia, ai magistrati, ai poliziotti, ai carabinieri … Ora il senso del dovere sembra riprendersi il posto che merita: ha, eticamente parlando, pieno diritto di parola per reclamare diritti solo chi fa bene il proprio dovere.

Coraggio e don Abbondio.

Rimane tuttavia vero che compiere il dovere connesso al proprio lavoro può comportare del coraggio. L’etimologia della parola sembra provenire dal provenzale e poi dal francese antico che corrisponde al vocabolo latino “coraticum”. “Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio” precisa l’Istituto Treccani. A me il vocabolo richiama cor e agere: agire col cuore. Senza rinunciare all’intelligenza e al raziocinio ma lasciando che l’ultima parola spetti “al cuore”. Intendendo con “cuore” non il nostro muscolo più famoso bensì un’istanza metafisica e meta-razionale, contenitore ed elaboratore dei nostri valori, delle nostre emozioni e del nostro temperamento.

“Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare” (sempre Don Abbondio). Epperò, essere magistrato in zone ove le cosche criminali controllano capillarmente il territorio implica mettere a rischio la propria vita, se si fa fino in fondo il proprio dovere. Spegnere gli incendi divampati recentemente in Australia ha richiesto tanto coraggio e molte vite dei Vigili del Fuoco. Assistere gli ammalati di COVID-19 ha causato molti contagi e molte vittime fra gli operatori sanitari i quali hanno continuato a lavorare sempre più consapevoli del pericolo mortale che affrontavano.

Eroi.

Premesso quanto sopra, e accettato che ricevere un ringraziamento per il proprio operato fa piacere a tutti, si può provare a comprendere l’imbarazzo e l’insofferenza di quei Medici ed Infermieri che non tollerano di essere definiti “eroi”. Essi affermano di aver semplicemente fatto il proprio dovere, di aver onorato la propria divisa, di essere stati conseguenti con la scelta della loro specializzazione (alludo in primis ai Colleghi infettivologi e rianimatori, ma ovviamente non solo a loro).

Schernendosi, essi non solo richiamano un principio di realtà ma suggeriscono implicitamente una domanda: “Capite ora cosa sia il Servizio Sanitario Nazionale, di quali compiti si sobbarca, su quali doveri si basa, quali sacrifici possa richiedere?”.

Anche a voler ridurre tutto in termini economici, visite e prestazioni ambulatoriali, ricoveri, accertamenti diagnostici, medicine essenziali e professionisti di multiple competenze (sanitarie e amministrative) sono a disposizione di tutti, per la salute di tutti, con (DATI OCSE 2019) una spesa annua out of pocket pro capite, a parità di potere di acquisito, di $ 791 (corrispondenti a € 725 al cambio del giorno 09.04.2020). Una cifra che corrisponde a 1 rateo mensile di mutuo trentennale a tasso fisso necessario per comprare un trilocale in zona Piramide a Roma (corriere.it, 15.09.2019).

Forse, per qualcuno, il sottrarsi al pubblico plauso è anche dettato da un malcelato risentimento covato per i tanti anni di ridimensionamento del personale, di blocchi delle assunzioni, di turni pesantissimi, di qualità di vita forzatamente svilita. E perché no, di stipendi bloccati. Dietro il loro “non siamo degli eroi” potrebbe nascondersi qualche provocazione implicita: “Era proprio inevitabile tagliare fondi al Servizio Sanitario Nazionale? Si poteva/doveva assegnargli una priorità? Era proprio giusto metterlo in competizione con le strutture private profit? (principio fissato il quale – almeno in alcune Regioni – i proventi delle strutture pubbliche virtuose sono stati girati a quelle profit perché crescesse il loro ruolo di competitor…)”. Ma ci sono sicuramente altre amarezze difficili da far affiorare.

A questo punto, sento il dovere di precisare che anche le strutture profit ed i loro operatori hanno dato il loro contributo: e questo rende loro onore.

L’atteggiamento di quanti si scherniscono davanti alla qualifica di “eroe” ha anche una valenza culturale: me l’ha evidenziata un amico carissimo, medico eccellente. Dare dell’“eroe” a chi fa il proprio dovere significa ammettere implicitamente che non sia dovuto farlo nel contesto di situazioni difficili. In altre parole, significa dare per scontato che sia ammissibile e quasi “normale” sottrarsi al proprio dovere quando questo comporta sacrifici. Insomma, un optional e non un must. È un atteggiamento pericoloso e fuorviante. Qualche cattivo esempio, purtroppo, c’è stato.

Welfare state.

Nel campo della Sanità c’è ancora molto da fare, molto da migliorare, molto da omogeneizzare: sta di fatto che il nostro welfare state – sebbene in qualche epoca con l’esborso di ticket non proprio irrisori – assiste tutti. Anche i vecchi. I quali, in Italia, hanno una spettanza di vita che in altri Paesi (pur affatto poveri) rimane un miraggio. La speranza di vita alla nascita, secondo i dati OCSE (Health Status, 2019) riferiti al 2017, risulta in media pari a 83 anni: solo in Giappone, Svizzera e Spagna, tra i paesi OCSE, è più alta.

In verità, ci si sta interrogando se durante la presente pandemia gli anziani siano stati pesantemente discriminati negando loro – solo in base al criterio dell’età – la possibilità della diagnosi (PCR per COVI-19, “tampone”), il posto letto in Ospedale, il trasferimento in Unità di Terapia Intensiva. Soprattutto se ospiti di una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). Ma questo è argomento che troverà risposte meno viscerali quando si potranno analizzare, con i dovuti correttivi, tutti i dati raccolti. Essi sembrano avere, purtroppo, pesanti limitazioni.

Dovere.

Riabilitato il dovere, mi chiedo: che cosa può renderne eroico l’espletamento travalicando la dose di “ordinario” coraggio che esso può implicare?

A maggior ragione, di eroismo si può parlare quando non c’è (più) alcun dovere da assolvere: è il caso dei volontari, soprattutto dei pensionati che si offrono pur essendo anziani. Da tempo l’entità e la qualità del volontariato rappresenta una vera gloria della nostra Patria.

Viene in soccorso ancora l’Istituto Treccani: è un eroe “chi, in imprese guerresche o di altro genere, dà prova di grande valore e coraggio affrontando gravi pericoli e compiendo azioni straordinarie”. È in base ad un principio del genere che vengono elargite medaglie e onorificenze.

Sono molto interrogato dalle motivazioni, dalle spinte che muovono al coraggio estremo e lo trasformano in eroismo. Chiarisco subito che qui non desidero addentrami nella disamina del martirio subito a causa della propria fede religiosa.

Nessun uomo è un’isola.

La prima considerazione che mi balza alla mente è che siamo persone, non individui. In quanto persone, siamo immerse in un circuito di relazioni. “Nessun uomo è un’isola” mi rivelò una persona che aveva molta più cultura di me e conosceva John Donne.

Certo, in molte circostanze, si fa fatica a sentirsi dentro una rete di rapporti e si crede di essere soli, davvero soli. È il dramma di questi tempi: Theresa May nel 2017 ha istituito un Ministero per la Solitudine nel Regno Unito.

Alcune scoperte della fisica quantistica (materia per me assolutamente ostica) sembrerebbero sconfessare un assioma che tutti riterrebbero lapalissiano: che cioè, se una particella è in un certo punto X non può essere, contemporaneamente, nel punto Y. Non solo, sembrerebbero anche dimostrare che ciò che ha lo stato di onda collassi – abbandonando la pluripotenza dell’ “ovunque” – per assumere lo stato di particella dotata di una posizione finalmente univoca solo dopo la “relazione” con uno strumento esplorante.

Quindi, se ben comprendo, anche la materia attende la relazione per “trovare un suo posto” nell’universo. Quanto più le persone! Quindi, se tutti siamo sempre e comunque in relazione con qualcuno forse dobbiamo tenerne conto quando ci apprestiamo a intraprendere comportamenti che mettono a repentaglio la nostra vita. “Se morissi, che ne sarebbe dei miei cari più intimi, dei miei amici più stretti, di quella persona anziana che dipende dalla mia assistenza? …”. In altre parole: “Posso fare le mie scelte prescindendo dai loro interessi, dalle loro aspettative, dalle conseguenze della mia possibile morte?”

In aggiunta alle conseguenze legate alla perdita della propria persona, non andrebbero trascurate quelle che si abbatterebbero direttamente su altri a causa di quanto ci si accinge a fare: un atto di eroico coraggio potrebbe avere conseguenze nefaste su molte persone. Mi tornano alla mente episodi di resistenza in tempo di guerra o di dittatura quando ogni minimo gesto di opposizione costava efferate torture e anni di carcere a chi si esponeva ma anche ritorsioni pesantissime, a volte estreme, su parenti e amici. L’espletamento del dovere del buon cittadino che si batte coraggiosamente per la libertà della Patria può costare il sangue di molti (la bomba di via Rasella e le Fosse Ardeatine ce lo ricordano).

il Foro interno.

Ci sono poi le componenti delicatissime e mai del tutto sondabili del proprio foro interno: valori laici e religiosi, ideali, principi di giustizia sociale, senso di appartenenza sono solo alcuni dei potentissimi inneschi degli atti di eroismo. Ma, mi chiedo, perché si vuole essere fedeli a tutto ciò? È veramente solo, o almeno soprattutto, per il bene di tutti (ad extra) o per il mero (narcisistico?) soddisfacimento della propria coerenza interna (ad intra)?

Voglio pensare che la prima motivazione sia proprio quella che ha spinto tante persone a rischiare o perdere la vita durante la pandemia della COVID-19. Chino il capo e resto in silenzio, commosso, pensando con grande rispetto e ammirazione alle vittime.

Il verificarsi della seconda ipotesi mi lascerebbe perplesso. Potrebbe trattarsi di una sorta di dipendenza dalla stima sociale (in vita o nel ricordo dopo la morte: un po’ il Dei Sepolcri di Foscolo), da quello che gli altri pensano di noi, dalla nostra immagine pubblica sui social o nella cerchia dei propri amici. È noto che non pochi creano falsi profili virtuali ove recitano la parte di chi e di come vorrebbero apparire agli occhi altrui; altri vivono nella vita reale sdoppiati in due (o più) personalità da esibire all’impronta. Analogamente, molti si identificano con un personaggio sportivo di successo e indossano magliette che ne riportano il nome; si pettinano secondo la moda lanciata dalla cantante in voga; parlano scimmiottando gli ospiti dei salotti televisivi; si tatuano come l’attore preferito. Assimilabile a quanto appena espresso mi sembra la moda del “daredevil selfie” cioè l’auto-scatto in situazioni di pericolo estremo appositamente ricercato: una sostanziale alienazione che risponde al bisogno “Guardatemi, consideratemi, stimatemi: fatelo, per favore, ne ho molto bisogno anche se non posso ammetterlo apertamente”.

La dipendenza dalla stima degli altri come fondamento della propria persona non è debolezza dei soli appartenenti alle Generazioni X o Z: è fenomeno antico che la tecnologia ha adesso esasperato e reso addirittura anonimo. Mi riferisco alla ricerca ossessiva e francamente un po’ ridicola dei like ricevuti da sconosciuti.

Con quanto sopra espresso non volevo assolutamente sostenere che “gli eroi” sono tutti e solo dei narcisisti temerari. Me ne guardo bene. Piuttosto, ho voluto riflettere su almeno alcuni degli elementi del discernimento che, penso, ognuno è chiamato a fare allorché i fatti della vita gli impongono di valutare se mettere in atto o meno comportamenti eroici.

Una rigorosa analisi delle proprie motivazioni, l’individuazione sincera del cui prodest, la considerazione delle conseguenze della propria morte e delle ripercussioni sulle persone più strettamente relazionate potrebbero essere opportune.

Il bene VITA.

In gioco è il bene “vita”: in Italia ad esso implicitamente si allude nella prima parte dell’art. 32 della Costituzione allorché vi si definisce la “salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Alla collettività, cioè, “interessa” che una persona sia in buona salute, cioè viva. Dal punto di vista legislativo la vita è considerata bene indisponibile ex artt. 579 cp, 580 cp e 5 cc sebbene con una giurisprudenza enorme. Questa riflette le molte interpretazioni che i giudici hanno ritenuto di voler applicare (o introdurre tout court) nella casistica sempre più variegata degli ultimi anni. Nel groviglio delle sentenze due antropologie sono “l’una contro l’altra armata”: la vita come bene dell’individuo di cui questo è libero di fare ciò che vuole (persino di disfarsene quando lo ritenesse opportuno) e la vita anche come bene relazionale, quindi non solo della persona che lo ha ricevuto ma anche della collettività che può reclamarne una cura attenta e una salvaguardia responsabile.

Se la vita non è come un paio di scarpe, delle quali si può disporre a piacimento e buttarle via quando non piacciono più; se anche fosse che “la vita è una sola” la collettività chiede che sia comunque spesa bene. Si può offrirla, come dono estremo, ma per qualcosa che abbia veramente un grande valore e non per una banalità, per un capriccio o per illudersi di fare uno sberleffo alla morte.

La pandemia che tutti viviamo è foriera di situazioni imprevedibili, inaspettate, che a volte impongono decisioni rapide. Avere le idee chiare, o un po’ meno confuse, può aiutare allorché il guazzabuglio interiore deve decantare in una prassi quasi istantanea.

Ora abbiamo molto tempo per riflettere. Ognuno nella libertà della propria coscienza.

In un libro importante si trova scritto che “non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Lì, secondo il mio sentire, l’enfasi è su “la vita”. Ma c’è stato almeno un caso in cui anche gli sconosciuti (persino se mortalmente ostili) sono stati inclusi negli amici: e questo rende quell’amore davvero il più grande che ci sia.

Molte persone – oltre ai Medici, agli Infermieri, ai preti – lo hanno testimoniato in questi giorni: e questo allarga il “cuore” e nuovamente lo dilata di stupore e allegria.